di Silvia Vacca
“Abbiamo discusso animatamente, poi sono volati gli insulti e dopo è arrivato il primo schiaffo”, a qualcuno sarà capitato di sentire questa frase da un’amica. “È una vita che stiamo insieme, non posso lasciarlo, non ce la faccio, non riesco a immaginare una vita diversa”, altre persone avranno sentito parlare così una collega di lavoro. “Ha pianto come un bambino, si è pentito, ha giurato sui nostri figli che non capiterà più, l’ha giurato”, qualche sorella avrà giustificato così l’atteggiamento del proprio compagno. Amiche, colleghe, sorelle, madri, figlie, donne. Donne che subiscono violenza dal proprio partner all’interno delle mura domestiche, donne che dalla persona cui hanno donato il proprio amore, vengono colpite al cuore e nel fisico sotto quel tetto e quelle pareti che dovrebbero essere il luogo più sicuro, sul quale si è investito per una vita e un futuro insieme. In Italia, secondo l’indagine sulla sicurezza delle donne effettuata nel 2006 dall’Istat e finanziata dal Ministero per i Diritti e le Pari Opportunità, sono stimate in 6 milioni 743 mila le donne tra i sedici e settanta anni vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della vita. La violenza ripetuta avviene più frequentemente da parte del partner, ben il 67.1% dei casi. Inoltre, sono le separate e le divorziate a subire più violenze nel corso della vita (45.6%), seguono le nubili (17.8%), le coniugate (10.4%) e le vedove (9.8%). Sempre secondo l’indagine, è importante rilevare come le percentuali più alte di donne vittime di violenza sia tra le laureate (18.7%) e le diplomate (17.3%), a livello professionale sono le dirigenti, le imprenditrici e le libere professioniste (23.5%), a seguire le donne in cerca di occupazione, le studentesse, le impiegate, le autonome, le operaie, le donne ritirate dal lavoro e in fine le casalinghe. Da un punto di vista geografico è il Nord il territorio in cui si verificano più violenze, in particolare nelle zone metropolitane. Un quadro che evidenzia ancora di più come il problema sia culturale, non a caso circa il 96% delle violenze provengono da un non partner e il 93% di quelle da partner non vengono denunciate; considerazioni ancora più palesate dal fatto che solo il 18.2% delle donne considera la violenza subita in famiglia un reato, addirittura per il 44% è stato solo qualcosa di sbagliato e, pensate, per il 36% solo qualcosa che è semplicemente accaduto. Dalla lettura di questi dati sembrerebbe che quanto più una donna è emancipata e indipendente tanto più l’uomo e la società, rimanendo fermi e legati a concezioni e ruoli pressoché arcaici, sfogano questo conflitto in una violenza che viene giustificata.
In base a quanto detto, appare urgente sensibilizzare la società su questo fenomeno e sradicare una cultura che per certi versi è ancora patriarcale, di obbedienza e sottomissione della moglie al marito, comportamenti medioevali che si riscontrano ancora oggi nelle motivazioni di quegli uomini che arrivano a picchiare e, purtroppo, sempre più spesso, uccidere la propria compagna.
Come nella testimonianza riportata sul libro Se questi sono uomini di Riccardo Iacona, in cui un uomo nel spiegare le ragioni della sua violenza dice: “dal momento in cui ci siamo sposati è stato come se io avessi dei diritti che prima, quando non eravamo sposati, non erano così scontati […] volevo che lei si preoccupasse un po’ di più della casa e di me. La rimproveravo di trascurarmi. Poi mia moglie è stata assunta, ha preso un posto in una banca e a me sono aumentate le gelosie e le insicurezze. Mi preoccupava che potesse relazionarsi con altre persone. Avevo paura che qualcuno me la portasse via […] devo dire la verità non me ne dava adito […] era un mio tarlo ero accecato dalla gelosia”. Queste parole non possono lasciarci inermi di fronte alla necessità di improntare una cultura diversa attraverso una “comunicazione di genere” che parta dalla formazione nelle scuole e continui con i messaggi mediatici affinché non esistano più differenze di sesso e la parità diventi un punto fermo, perché è di questo che si tratta, uccidere una donna in quanto tale, in quanto essere inferiore.
Diverse polemiche si sono sviluppate tra chi considera il femminicidio un’ emergenza e chi, scettico sui numeri e sull’attendibilità delle informazioni, pensa che si tratti principalmente di un allarmismo mediatico. Al di là di come lo si voglia interpretare, il problema esiste e per quanto si possa non essere d’accordo sulla necessità di costituire un osservatorio nazionale di monitoraggio del fenomeno, risultano fuori luogo i tentativi di contestare l’inattendibilità dei dati. Con questo atteggiamento si minimizza il fatto che una donna venga uccisa. Poco importa se i giornali abbondano di qualche unità, quando una donna viene ammazzata è perché colpevole di appartenere al genere femminile. Questo dovrebbe bastare per essere indignati ed attivarsi affinché venga inculcata una cultura più sana nella società, altrimenti le polemiche rischiano di coprire l’essenza del problema e sporcare un diritto assoluto: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale […] senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
È più che mai auspicabile che gli intenti di alcuni ministri e del Presidente della Camera, esternati nelle ultime settimane, trovino al più presto concretezza in un tavolo di confronto con le associazioni affinché venga ampliata la rete d’aiuto. È noto quanto l’Italia sia impreparata in termini numerici ad accogliere donne e bambini vittime di violenza in strutture adeguate. I centri antiviolenza, per quanto preziosi e attivi, sono pochi e non bastano a coprire un bisogno che cresce in conseguenza dell’aumento di questi generi di reato. Servono finanziamenti, contributi, servono interventi politici, serve che lo Stato cominci a fare lo Stato e che la società civile e tutti noi iniziamo a spogliarci dall’individualismo che ci appartiene.
Le più di 100 donne uccise nel solo 2012 non possono lasciarci indifferenti, erano madri, figlie, amiche, sorelle, colleghe, donne: esseri umani.