di Andrea Tabagista Frau
Maurizio dormiva beato sulla solita panchina.
Un vecchio lercio e barbuto gli si avvicinò e cominciò a leccargli la faccia.
Maurizio aprì gli occhi come una bella addormentata baciata dal principe azzurro, ebbe un sussulto e cadde dalla panchina.
Si ricordò di trovarsi in un parco, non si era ancora abituato, ad ogni risveglio un rinnovato stupore.
Si accorse di essere senza scarpe.
Il vecchio era fuggito via con il sonno, il sapore e le scarpe di Maurizio.
Maurizio aveva una trentina d’anni e nonostante vestiti logori, barba e capelli lunghi conservava un aspetto borghesemente passabile.
C’era gente che per avere un look finto trasandato come quello rimaneva ore in bagno ad arruffarsi i capelli e a provare delle smorfie.
Maurizio era solito girare con un telecomando senza pile salvato da un cassonetto e divertirsi a regolare la temperatura di casa puntandolo al cielo.
Il parco era enorme e densamente abitato. Sotto ogni panchina c’era uno zerbino con una scritta simpatica e una chiave nascosta sotto un vaso.
Intanto l’altra vegetazione ricopriva il parco libera e selvaggia senza essere costretta dentro vasi.
Persone trasandate con la barba lunga reggevano disperati fogli di cartone che recitavano:
“Vi prego, se serve aiuto non esitate a chiedere. Vi prego, per qualunque cosa sono qui”.
Erano le undici del mattino, gli abitanti delle panchine dormivano ancora, anche perchè era domenica mattina.
Aveva la schiena a pezzi, non si era ancora abituato a dormire sulle panchine.
Faceva freddo, lo spettacolo floreale del parco lo consolava, ma non abbastanza. Come se tutti i condannati a morte venissero giustiziati in una stupenda isola caraibica.
Gli indigeni che ti danno il benvenuto mettendoti al collo mortuarie corone di fiori.
Cocktail sulla spiaggia con siringhe dell’iniezione letale come ombrellini.
Plotoni d’esecuzione che ti sventolano sulla faccia fucili come palme.
No, stava esagerando la natura era rigogliosa, gli alberi in fiore, stava bene.
Da qualche settimana non vedeva Marinella.
Marinella aveva gli occhi di un piccione malato, conoscerla era stato come trovare un inatteso tesoro, metà pizza, o un fiore, dentro un cassonetto.
Ci si perdeva tra la natura rigogliosa dei suoi peli pubici.
Ci si perdeva come nel labirinto di siepi di Shining.
L’ultima notte avevano dormito insieme abbracciati sulla panchina per difendersi dal freddo e dai ladri di scarpe.
Quella notte chiusero gli occhi insieme sussurrando Piazza Grande: “A modo mio, avrei bisogno di carezze anch’io”.
Dormirono insieme senza fare l’amore.
Era una cara ragazza.
Il beagle di Marinella stava sdraiato in equilibrio su una cuccia di cartone, proprio come Snoopy.
Giaceva morto in quella posizione da qualche giorno. Cominciava a puzzare.
Con tutto il rispetto per Marinella e per l’amore in generale adesso provava sensazioni più intense e ugualmente primitive: aveva fame e soprattutto sentiva molto freddo.
Maurizio fece qualche metro ed entrò in casa.
Indossò le pantofole pelose, la vestaglia con le iniziali del padre e corse diritto in cucina dove lo aspettava una tavola imbandita per la prima colazione. Con la bocca piena, sputacchiando pezzi di croissant farfugliò:
“Damiano, ho detto ai barboni del parco di spaventarmi, ma senza toccarmi.
Uno è uscito di testa e mi ha leccato la faccia. Esigo che lo redarguisca”.
“Sarà fatto, signorino”, rispose il maggiordomo.
Maurizio prese una scala, salì sul tetto della sua villa e si stese a pancia in su, proprio come Snoopy.
Con gli occhi chiusi per la vergogna bisbigliò: “Il cielo stellato sopra di me, la noia dentro di me” e rise con disperazione.